ALBERICO VERZOLETTO: L'UOMO E LA SUA ARTE

Artista dalla corposa e variegata produzione, protrattasi dagli anni Cinquanta del Novecento al primo decennio del Duemila, Alberico Verzoletto è uomo dalla personalità multiforme: in lui convivono slanci focosi, laconici raccoglimenti, assorte malinconie, emozioni antitetiche che sfociano nei contrasti di colore evidenti nelle sue opere. I suoi frequenti silenzi verbali non sono dovuti a mancanza di argomentazioni, ma a una scelta libera e cosciente: sono le tele a parlare, sono le tele che comunicano con i fruitori più ricettivi in modo diretto e con grande intensità. Definirlo uno dei tanti “pittori di valle” è banalmente riduttivo: la complessità della sua ricerca, personale e artistica, supera infatti ogni possibile definizione, va oltre i limiti geografici e culturali dell’ambiente in cui si è formato. Ciò è, almeno in parte, dovuto alla libertà e alla solitudine che hanno ispirato le sue scelte di vita, ma soprattutto alla coerenza morale che l’ha reso praticamente immune alle lusinghe e alle insidie del mercato dell’arte contemporanea.
Fin da ragazzo dimostra un vivido interesse per il disegno, riempiendo senza posa album di piccolo formato – come pure qualsiasi supporto cartaceo di recupero, quali involucri di cartoncino smontati, pagine bianche dei libri, retri di manifesti – con innumerevoli immagini vergate a matita e a biro, tratte dal vero oppure da foto, illustrazioni, fumetti e raffiguranti i soggetti più disparati. Il periodo giovanile è al contempo caratterizzato dalla produzione di statuette intagliate nel legno, spesso ricavate da materiali di seconda mano come vecchi manici di scopa, dai quali trae figurine sorprendentemente agili e dettagliate. La formazione fisica è invece dovuta all’appassionata pratica del ciclismo, per un certo periodo svolta anche a livello agonistico.
Negli anni della gioventù sono significativi due incontri: la futura moglie Giancarla Mazza e Alvaro Rossetti, pittore e viaggiatore che lo affascina con i racconti di una Parigi mitizzata e popolata da artisti straordinari, rivoluzionari, gli iniziatori dei movimenti moderni. Verzoletto studia quindi attentamente i pittori impressionisti, i postimpressionisti, gli espressionisti francesi, nel costante impegno di carpirne le innovazioni tecniche e stilistiche nell’inquadratura, nella pennellata, nella resa cromatica. È anche però interessato agli italiani del Novecento come Carrà, Casorati, Morandi.

Esplora e amplia i propri orizzonti, cimentandosi sempre più intensamente con la pittura.
Il suo percorso è stato messo a confronto con quelli di Pissarro, de Vlaminck, Dufy, oltre che con Van Gogh, Matisse, Cezanne e, ancora, con pittori simbolisti, primitivisti, fauves e addirittura metafisici. Tuttavia occorre riconoscere a Verzoletto spiccate doti di autonomia creatrice e competenza tecnica, presupposti di un’identità peculiare e una coerenza che lo rendono pressoché unico. La sua produzione non è derivativa, è anzi estremamente eterogenea e variegata, contraddistinta da una precisa cifra stilistica che lo rende di primo acchito riconoscibile e lo differenzia da qualunque altro maestro del pennello.
Un punto di riferimento stilistico importante è un pittore della generazione precedente, Ido Novello, che nei primi tempi assiste il giovane collega e lo incoraggia a lavorare non sulla spinta dell’improvvisazione, della spontaneità, bensì concentrandosi su forti motivazioni intellettuali, giungendo a innalzare un filtro tra l’ambiente, la società e la propria persona.
Potenti stimoli visivi gli arrivano dalle terre a lui circostanti e con le quali si sente in profonda sintonia: terre dall’aspetto orografico complicato – con contrasti chiaroscurali sorprendenti, da scoprire poco a poco – che restituisce attraverso un sempre più peculiare codice espressivo. Sa osservare, ma anche interiorizzare e interpretare, in quella che il critico Gian Piero Rabuffi definisce «una vera e propria compenetrazione emotiva con i soggetti[1]».

Quella per la pittura è ormai divenuta per lui una vera e propria vocazione, così totalizzante da portarlo progressivamente ad allontanarsi dalle occasioni sociali e ad avvicinarsi sempre di più alla natura, preferendo relazionarsi con il popolo arboreo piuttosto che con quello umano. Una presa di posizione gentile, ma risoluta.
Visitare la casa di Verzoletto, ma soprattutto esplorarne la biblioteca, rivela molto dei suoi interessi artistici e letterari. Legge testi critici di Zeri, Panofsky, Vattimo, Marangoni. Possiede l’intera collezione dei Maestri del Colore e una storia della pittura italiana dal Futurismo a oggi, oltre a numerose monografie dedicate ad artisti antichi e contemporanei. È interessato a indagare in profondità il pensiero di pittori con i quali si sente in sintonia: dunque non stupisce che possegga pregiate edizioni degli epistolari di Van Gogh, Gauguin, Modigliani e altri.
Su cartoncini di recupero affastella i suoi pensieri – «Che cos’è la poesia? Che cos’è la musica? Cos’è l’arte? Quello che rimane quando tutto il resto scompare» – o trascrive citazioni che lo hanno colpito nell’intimo: «Un artista non ha nessun obbligo verso la realtà: lo ha soltanto verso la propria visione» (Pietro Citati), «La pittura di paesaggio riassume e contiene tutto: è pittura sacra, è musica, è poesia» (Roberto Tassi). Nell’ultimo, vergato appena prima di morire e indirizzato alla moglie, c’è semplicemente scritto: «Io dipingo». La lapidaria sintesi di un’intera vita.

In occasione delle rare ma illuminanti interviste si esprime con frasi ora intense e drammatiche, ora argute: «Dipingere è per me una sofferenza e costa fatica, ma è una necessità: devo farlo perché è più forte di me».
Essendo un autodidatta viene definito “pittore della domenica” e al giornalista, che in un articolo sull’Eco di Biella del 1966 gli chiede se si riconosca in questa definizione, risponde: «Personalmente non dipingo mai la domenica. Dipingo preferibilmente nelle ore notturne, in lotta con il sonno. Le ho detto che per me dipingere è liberazione e sofferenza insieme. Credo che la definizione sia più che altro designatrice dell’attività artistica di persone che nella vita compiono anche un altro lavoro. Io per esempio lavoro presso la ditta Zegna di Trivero, sono operaio». E poi ancora: «Mi è sempre piaciuto pasticciare con la matita, ma il vero senso della pittura l’ho avuto verso i vent’anni». A proposito del conciliare le esigenze della pittura con quelle del lavoro dichiara: «Non credo che sia il caso di conciliare, ma di potersi sdoppiare. In fabbrica si esegue un lavoro che richiede applicazione totale, quindi in fabbrica non penso alla pittura, la mia dedizione è tutta pratica per quelle cose che faccio nelle ore prestabilite. Dopo le quali divento un altro; fuori da ogni impegno e da ogni obbligo sento di poter parlare un linguaggio mio, indipendente da ogni legame che non sia la mia personalità. In questo modo la pittura viene a completare la mia vita, come un regalo». Il giornalista gli chiede poi se la pittura dilettantistica dei lavoratori sia da considerare un’evasione e riceve questa risposta: «Le ho già detto che per me la pittura è una cosa molto seria, come tutte le manifestazioni del pensiero: se cercassi evasione non sarebbe certo attraverso l’attività artistica, che impegna in modo profondo». Di come nasca l’idea di un quadro afferma: «Una cosa vista, un suono, un colloquio con una persona amica, le parole si trasformano in immagini pittoriche che io poi elaboro… Tutte le cose della vita mi interessano, in tutte trovo motivo di osservazione. Il mio lavoro si svolge prevalentemente al chiuso e nel completo silenzio. Vado cauto, da buon biellese. Sono un dilettante e in questa dimensione devo mantenermi. Quello di fare, un giorno, solo il pittore è un sogno: ciò che conta ora è poter fare cose buone e pulite»[2].

In un’altra occasione si esprime a proposito del suo metodo di lavoro: «L’arte per me è una cosa terribilmente difficile. Anche se penso di aver raggiunto un certo livello mi accorgo che ho molto da apprendere. Ciò mi porta a una furia distruttiva dei miei lavori, spesso lo faccio e dopo sto meglio, perché facendolo riscontro poi un miglioramento, un ulteriore passo avanti nei miei quadri». Il suo spirito arguto emerge in questa battuta, breve ma incisiva: «La vita…In un primo momento mi verrebbe da dire: è una bella fregatura. Ma poi, dal momento che siamo qui, vale la pena di viverla».

In un’intervista del 1962, quando gli viene richiesto un parere sull’educazione artistica nelle scuole risponde: «In tutti i programmi scolastici si dovrebbe far conoscere ciò che è bello. In genere i programmi aiutano a conoscere solo quanto è utile e indispensabile, dimenticando che nella personalità umana è necessario sviluppare anche il senso dell’arte. Questo senso aiuterebbe moltissimo la formazione dei giovani, ne migliorerebbe la sensibilità, svilupperebbe maggiormente quella parte di personalità che il più delle volte nella vita non ha sfogo, soverchiata com’è ai tempi nostri dal tecnicismo».

Nel volgere degli anni, oltre al Piemonte altri luoghi richiamano la sua attenzione: la Liguria, la Toscana, l’Umbria, la Sardegna.
Verzoletto stesso descrive il suo iter creativo nei colloqui con i rari amici: inizialmente esce per lavorare all’aria aperta, ma ciò che ne ricava è solo una prima suggestione compositiva e cromatica, un bozzetto che poi viene rielaborato in studio.  Dati naturalistici oggettivi, esteriori, e sensazioni soggettive, interiori, si stratificano nelle sue tele offrendo interazioni sorprendenti.

Con la maturità alla luce naturale preferisce quella artificiale, o meglio: rinuncia agli esterni isolandosi nel rassicurante isolamento del suo studio, dove può scandagliare in profondità ciò che si cela oltre l’apparenza delle forme.  Rimangono però immutate, anzi crescono, l’urgenza e la foga con le quali lavora in modo febbrile a centinaia di opere. La pittura, per sua stessa ammissione, lo aiuta a migliorare la qualità della vita, sia fisicamente sia spiritualmente. Dopo aver rivolto lo sguardo fuori di sé e dentro di sé, prende coscienza del principio di unità e di molteplicità – anche attraverso la pratica di tecniche di meditazione orientali – cioè del fatto che l’individuo è il risultato dell’opposizione al tutto di cui fa parte, trae energia dall’universo e ne cede in un ciclo continuo.

Con la moglie e con alcuni amici condivide una visione spiritualistica dell’arte. Giancarla, a proposito della pittura del marito, cita le parole del filosofo bulgaro Omraam Mikhaël Aïvanhov: «Il vero artista realizza la sintesi tra la filosofia, la scienza e la religione, perché essere artisti significa concretizzare sul piano fisico ciò che l’intelligenza concepisce come giusto e vero e ciò che il cuore sente come buono, affinché il mondo superiore, il mondo dello spirito, possa scendere e manifestarsi nella materia. L’artista, nel senso iniziatico del termine, è colui che ha saputo mettere ordine e assennatezza nei suoi pensieri e vi ha saputo introdurre l’amore e la pace. Allora tutto ciò che realizza è armonioso e pieno di significato»[3].

Un sodalizio artistico e personale particolarmente stimolante si instaura, per anni, con il chitarrista e compositore Angelo Gilardino, conosciuto durante le “Vacanze chitarristiche” di Trivero, scuola internazionale di perfezionamento per chitarristi iniziata negli anni Settanta e che offre a musicisti di diverse provenienze l’occasione per stimolanti scambi creativi con l’artista. Gilardino paragona l’opera pittorica di Verzoletto a una “fiaba segreta” e definisce il pittore “tentato dal mito”, interpretando con parole così evocative l’uso non descrittivo ma espressivo-psicologico della composizione grafica, dei colori, delle luci e delle ombre.

I due linguaggi artistici – quello pittorico e quello musicale – sono strettamente collegati. Un pittore e un musicista s’intendono molto bene in quanto le due forme espressive condividono anche la terminologia: colore, tono, ritmo, composizione, armonia, contrasto sono solo alcuni degli elementi che costituiscono le basi dei messaggi visivi e uditivi, attraverso i quali evocano sensazioni e descrivono situazioni.

Gilardino scrive interessanti testi critici a corredo delle opere del pittore, inoltre lui e i suoi allievi suonano in occasione delle vernici delle mostre. Verzoletto, in cambio, offre i suoi dipinti per illustrare le copertine degli spartiti e degli album musicali di Gilardino. In occasione della mostra “Naturalmente[4] (avverbio scelto dal pittore stesso per definirne il peculiare percorso espositivo) il musicista si interroga sul significato di tale titolo, giungendo a chiedersi se la pittura di Verzoletto sia naturale o naturalistica e arrivando alla conclusione che in realtà si tratta di un’operazione poetica svolta a partire da soggetti che di naturale hanno poco o nulla, in quanto fortemente antropizzati. Definisce la sua pittura «un racconto poetico per immagini, che trasforma i luoghi in creature animate da una vita segreta». Non è “naturale” neanche la tecnica pittorica: Verzoletto ha infatti inventato di sana pianta un “vocabolario cromatico” personalissimo, che risponde a regole e capricci propri. Infine il compositore cita “l’architettura figurale” del pittore, «che non teme di sovvertire le leggi della prospettiva e della proiezione delle ombre» e che, ancora una volta, non ha nulla di naturale.  Quello che c’è di davvero “naturale” nella pittura di Verzoletto è il processo mentale che gli è proprio, attraverso il quale trae i soggetti dalla realtà ordinaria e li trasferisce in una dimensione fabulistica, mitica e sognante.

A proposito della materia pittorica, osservando le tele da vicino e in luce radente, si può intuire il gesto compiuto dal pittore per realizzarle, impastando grandi quantità di colore con le spatole e utilizzando pennelli piatti, di grandi dimensioni, a setole rigide. Dal gesto deriva il segno, dal movimento del segno la definizione delle campiture e dei volumi. Ed è proprio il senso di tridimensionalità che stupisce in questi dipinti. È l’energia emanata dalla materia che affascina lo spettatore, fino a spingerlo a un approccio tattile, oltre che visivo. Sfiorare la superficie dipinta, seguendo con le dita i solchi tra le pennellate, aiuta a stabilire con l’artista un contatto autentico e un’intesa profonda.  La materia pittorica è applicata sulla tela o sulla tavola in modi che cambiano nel corso degli anni: durante la fase giovanile con piccoli tocchi guizzanti – e secondo accordi cromatici ora gentili e sereni, ora contemplativi e malinconici – quasi fossero tessere di un mosaico. In seguito campiture distese, e ampie introducono armonie boreali o contrasti vibranti e audaci (fondati sull’antinomia tra chiaro e scuro, tra freddo e caldo, ma non solo), palesando una visione nitida, attenta ai particolari così come all’insieme. In altri casi le pennellate si allungano in un tratteggio rilevato, sempre più direzionato in flussi e dalla frequenza serrata, fino a conseguire una tessitura cromatica sontuosa e sericea, dalla texture preziosa come un arazzo.

Nella fase della maturità le pennellate si fanno spesse, scure oppure luminose, e s’incurvano, si piegano, circondando le figure e creando forti contrasti – di colori puri, di chiaroscuro, ma anche di qualità, di quantità, di simultaneità – che conducono a una svolta vitalistica radicale, venata di spiritualità e misticismo.

[1] “Alberico Verzoletto”, di G. P. Rabuffi, 2018.

[2]Eco di Biella, 28 febbraio 1966.

[3]“Creazione artistica e creazione spirituale”, di O.M. Aïvanov, 1985.

[4]“Naturalmente”, testo critico di A. Gilardino per la mostra allestita presso il Salone ex Asilo di Castagnea, Portula 30 Settembre – 22 Ottobre 2006.